lunes, 18 de julio de 2011

5 luglio: FotoRacconto del Bicentenario dell'Indipendenza












VENEZUELA: APPOGGIARE, APPOGGIARE CRITICAMENTE O NON APPOGGIARE?

Presentiamo di seguito un articolo pubblicato su:

http://www.unmondonuovo.it/news/index.php?option=com_content&view=article&id=606:venezuela-appoggiare-appoggiare-criticamente-o-non-appoggiare&catid=48:america-latina&Itemid=73



Scritto da Marcelo Colussi (speciale per ARGENPRESS.info)   
Venerdì 17 Giugno 2011 12:51
“Quelli che fanno le rivoluzioni a metà non fanno altro che scavare le loro stesse tombe”
Slogan del Maggio francese, 1968

Se questo testo fosse stato scritto da un “peso massimo” (Noam Chomsky, Ignacio Ramonet, Eduardo Galeano…) sicuramente sarebbe letto con maggior attenzione. Fatto da un autore minore, si ottiene un minor impatto. Qualcuno lo avrà letto?
Perchè iniziare con questa citazione, provocatoria senza dubbio? Per sottolineare come siamo ancora legati, troppo legati, forse patologicamente legati alla nozione di VIP. Si, così come suona: VIP, very important people, “gente molto importante”. Quello che succede in Venezuela è una lampante – quasi patetica – dimostrazione di ciò.
Per la gente di sinistra (lasciamo per il momento da parte la discussione su cosa sia esattamente “essere di sinistra”: progressista, anticapitalista, optare per la lotta armata come mezzo di cambiamento, socialdemocratico sullo stile scandinavo, Daniel Ortega lo è in questo momento, lo è stato prima, o Lula in Brasile, lo è non essere omofobico, votare per il PSOE in Spagna?), quindi: per la gente di sinistra nel suo senso più ampio, il processo che si è aperto in Venezuela da alcuni anni è stata una fonte di speranza. Questa è (era?) la sua forza: ridare una speranza che era stata sequestrata.
Dopo gli anni di dittature sanguinose che hanno attraversato tutta l’America Latina, dittature che rispondevano in ogni caso alla strategia per l’emisfero della Casa Bianca, sono arrivati i piani neoliberisti. Possiamo dire che in Venezuela, anche se non ci sono state dittature simili a quelle del Cono Sur o a quelle del Centro America, nella decade degli anni 70 si è assistito ugualmente a una guerra sporca di sparizioni, torture e massacri contro il movimento popolare che decapitò qualche germoglio di protesta. Anche l’incipiento movimento guerrigliero che agì negli anni 60 fu virtualmente spazzato via, anche se si sa poco di questa repressione fuori dal paese, che presenta verso l’esterno un profilo di continuità democratica e di abbondanza economica, comprese le Miss Universo come simbolo nazionale. Ma la repressione feroce, uguale a quella di tutti i paesi nell’area, ci fu; e questi regime sanguinosi (con o senza militari al potere – anche il Costarica non ha avuto regimi di fatto e ha comunque attuato piani neoliberisti senza anestesia) hanno preparato le condizioni per un Carlos Andrés Pérez, o un Carlos Salinas de Gortari in Messico, o un Carlos Menem in Argentina, o altri meno grotteschi, i quali, a partire da strutture costituzionali, hanno messo in marcia progetti di distruzione dello Stato e di penetrazione del gran capitale così come nessun militare (eccetto Pinochet in Cile) ha ottenuto con carceri e cimiteri clandestini.

Dopo queste decadi disastrose, di assoluta smobilitazione, di perdita di conquiste sociali – in contemporanea con il tracollo del blocco socialista europeo, che ha contribuito ad accentuare il clima di disperazione – tutto il settore popolare cominciò a ripiegare. Le sinistre politiche sono rimaste silenziate, o trasformate in tiepide manifestazioni, in giacca e cravatta. E solo negli anni successivi le sinistre sociali, le manifestazioni popolari di resistenza (movimenti contadini, indigeni, disoccupati, difensori dei diritti umani) hanno ricominciato ad alzare la voce. Ma l’apparizione del fenomeno venezuelano è quello che realmente dà nuovo respiro alla lotta popolare, alla lotta contro il capitalismo feroce, ribattezzato con l’eufemismo del neoliberismo.

È stato il calore della Rivoluzione Bolivariana quello che pone nuovamente in agenda il tema dell’”imperialismo”, del “socialismo”, togliendoli dal loro luogo di “mostruosità demonizzate” condannate ad essere menzionate solo da Fidel Castro e compagni, che si cercò di ridicolizzare negli anni passati presentandolo(i) come un dinosauro nell’epoca sbagliata. Ma quello che questi “dinosauri” hanno detto per tutto questo tempo di oscurità risulta essere verità: l’imperialismo continua ad essere vorace, il capitalismo non risolve i problemi sociali, l’impresa privata è efficiente… solo per guadagnare denaro. E lo Stato, anche in un paese capitalista, è l’unica garanzia di uguaglianza sicura per la totalità della popolazione e non un meccanismo deficiatario come si è voluto far credere, valido solo per essere privatizzato… o per reprimere i popoli quando protestano.
In questo senso il processo che si è cominciato a vivere in Venezuela è una dimostrazione che “non tutto è perduto”, che lo storia continua, che la speranza continua e i poveri possono vivere meglio con un piano socializzante che con il neoliberismo.

In ogni modo, dall’inizio di questo processo in Venezuela si è aperto l’interrogativo rispetto a che cos’è questo “socialismo del XXI secolo”? Chissà forse ai suoi inizi è stato un accenno: un tentativo di costruire un modello di impegno sociale senza ripetere gli errori e gli eccessi dei primi esperimenti socialisti, afflitti da autoritarismo e burocrazia. Fu un esperimento, senza dubbi. Una nuova definizione per un capitalismo dal volto umano? Una nuova proposta di economia mista? Alcuni dicevano, anni fa, che non si può arrivare al socialismo del XXI secolo se non si parte dal socialismo del XIX secolo, quello dei fondamenti teorici che hanno costruito i suoi fondatori: non si tratterebbe di “migliorare” la società capitalista, ma di crearne una nuova. La discussione ha cominciato ad accendersi dopo anni di silenzio su questi temi. Questo, già in sé, era una buona notizia.

Allora: possono esistere due modelli? Di fatto, con le domande del caso, questo è quello che succede in Cina o a Cuba. Non ci sono dubbi che anche in Venezuela si attraversò questa fase di sperimentazione. Ma cosa possiamo concludere oggi, quasi una decade e mezzo dopo?
Nei suoi inizi, non vi è dubbio, il processo bolivariano ha scosso le strutture sociali. La moltitudine dei poveri – come in tutti i paesi latinoamericani, l’ampia maggioranza – ha cominciato a sentire che per la prima volta nella storia del paese si era iniziato a considerarla, che era qualcosa di più che manodopera o voto al momento delle elezioni. Il potere popolare, gli spazi dove la gente comune può iniziare a manifestare, a opinare, a prendere la parola, esistono. Questo fa la differenza: in nessun altro paese dell’aerea si vive un fenomeno così. Ora i poveri possono andare all’università, o ai teatri delle élite. Qualcosa aveva cominciato a cambiare. Per questo o non per qualcos’altro, la destra ha reagito. E di più: la sua situazione di privilegi economici non fu realmente posta in dubbio; la questione che è stata cambiata fu che con l’arrivo di Chavez smise di avere iniziativa politica, sia la destra da vernacolo come quella internazionale, rappresentata dall’ambasciata degli Stati uniti, sempre vero potere dietro il trono dei paesi latinoamericani.

Tutto il processo bolivariano fu una rivoluzione sui generis per il modo con cui si installò: non ci fu una sollevazione popolare, né una lotta armata che la installò. Al contrario, il suo leader arriva al comando di tutto questo processo come presidente eletto nell’ambito della democrazia rappresentativa di qualunque paese capitalista. Fu una rivoluzione che nacque dall’alto e arrivò al basso, ma che incontrò inmediatamente un appoggio insospettabile nelle basi.  Al punto che furono queste basi popolari quelle che la mantenerono nei momenti più critici che ha attraversato: il colpo di Stato del 2002, lo sciopero delle imprese, il sabotaggio petrolifero. Questo gran popolo mobilitato fu la migliore garanzia della sua continuità. Continuerà ad esserlo nel futuro? Per l’anno 2012 sono previste le prossime elezioni presidenziali, e è un fatto che la divisione taglienti del paese intorno a chavisti e antichavisti si mantiene quasi inalterato: 60% contro 40%. Ma c’è un elemento da considerare ora: la marea chavista non cresce e nell’apparato di governo non vi è preoccupazione in merito al se si vinceranno queste prossime elezioni. La rivoluzione continua? Può un’autentica rivoluzione – cioè un cambiamento profondo nelle fondamenta – rimanere incastrata ad un’elezione all’interno degli stretti canoni della democrazia rappresentativa?
Qualcosa di fondamentale per analizzare questo processo è che tutto il movimento politico si incentra nella figura quasi onnipresente del suo conduttore, il presidente Hugo Chávez. Deficit enorme, lampante in una rivoluzione: culto della personalità? Nessuno lo dice in questi termini, almeno a voce alta, ma sembra che si tratti di questo. E se ora lo diciamo, non è per un animo antichavista ma per una lettura critica-costruttiva del processo: si può costruire un cambiamento genuino solo a partire da una figura carismatica di un leader? Dove rimane il potere popolare? Che succederebbe se se non si vincono le elezioni del prossimo anno, o ancora, se per esempio morisse Chavez oggi stesso di infarto: finisce la rivoluzione? A Cuba Fidel non è più la primissima figura della scena politica, e il socialismo continua. Non succede lo stesso in Venezuela. Questo debe aprire a riformulazioni genuine.

In realtà, non si trova un discorso marxista dominante in tutte le strutture del governo. L’ideologia che porta (o almeno portava) il presidente Chavez è ampia, un miscuglio eterogeneo di referenti, da Cristo all’eroico guerrigliero Ernesto Guevara, passando dal Libertador Simon Bolivar e altri Padri Fondatori indipendentisti latinoamericani. È sicuro che, con questo miscuglio confuso, almeno nei primi anni della sua gestione si sono visti benefici palpabili per la popolazione: l’analfabetismo è stato finalmente debellato, cosa che ha reso felice l’UNESCO, i mercati popolari a prezzi bassi – sussidiati dallo Stato -  sono un aiuto importante per il bilancio famigliare (si stima che fino al 75% della popolazione ne fa uso, compresa la classe media, molte volte facendo un discorso visceralmente antibolivariano), viene garantito l’accesso a sistemi di salute a costo zero per tutta la popolazione – diagnosi, trattamenti vari, medicine, etc. – collaborando in questo in maniera molto stretta con le missioni cubane. Da un altro lato è cresciuto il movimento delle cooperative come alternativa di lavoro con accesso al microcredito e alla formazione, sono stati dati mutui popolari, è stato portata la ricerca dell’autosostentamento alimentare, è stata profondizzata l’applicazione della Legge delle Terre e l’espropriazione di terrini inutilizzati dei grandi latifondisti, cominciò ad avviarsi l’autogestione operaia nelle fabbriche recuperate. In altri termini: la rendita petrolifere cominciò ad arrivare alla popolazione come non era successo in tutta la storia della “Venezuela Saudita”, molto ricca in petroldollari e Miss Universo, ma piena di gente povera.

Allo stesso modo, l’apparizione di un paese “discolo” che si metteva sullo stesso piano dell’impero, ha permesso di disegnare strategie di integrazione latinoamericana più incentrate in meccanismi solidali che sugli imperanti trattati di libero commercio, fu così che nacque la proposta dell’ALBA come contrapposizione alla voracità di Washington.
Alcuni anni fa, abbiamo detto, tutto questo movimento era fonte di speranza, sia all’interno del Venezuela come nel settore popolare, latinoamericano e anche mondiale. Dalla sinistra, con alcune riserve in alcuni casi, si è salutato e appoggiato il processo bolivariano. La speranza in gioco permetterebbe di avere il beneficio del dubbio rispetto a molto di quello che si sta facendo: l’economia mista, il ruolo dell’imprenditoria nazionale, l’impunità con cui la destra si muove, gli opportunisti che si trovano nel governo, nessuno di coloro che davanti a casi provati di malversazione venga arrestato, e che hanno cominciato a costruire una nuova borghesia parvenue con molto potere politico (la “boliborghesia”). Allo stesso modo si aprirebbero dubbi con il ruolo delle missioni, che hanno sempre costituito un’incognita rispetto alla loro sostenibilità, dato che sono sorte più come una risposta congiunturale che come una politica rivoluzionaria dello Stato nel lungo periodo. Allo stesso modo si potrebbe aver giudicato la creazione e la struttura del Partito Socialista Unito del Venezuela – PSUV – assolutamente legato alla mano di Chavez e al suo dito ammonitorio che decide posti qui e là. Sebbene in un momento aprì le aspettative di rinnovamento politico lasciando pensare nella costruzione di uno strumento genuino per la rivoluzione, oggi le speranze in questo senso sembrano essere sfumate. Un partito rivoluzionario senza quadri rivoluzionari, che cos’è?
Nei primi anni si poteva dire con sicurezza che si stava ancora patendo il peso di un paese capitalista con tutta la sua cultura consumista e accomodante, e sicuramente che non si poteva sperare nella rapida sparizione della corruzione né dell’opportunismo; la battaglia dichiarata contro tutto questo prometteva cambiamenti.
Si sviluppano dunque due scenari possibili (come minimo) della rivoluzione nel breve e medio periodo (senza contare nella sua inversione totale e assoluta attraverso un colpo di Stato cruento, attuato da una progressione della destra fascista, cosa che, al momento non è successa, ma che non si può scartare): da un lato una proposta di “terza strada”, un capitalismo umanizzato, socialdemocratico nel migliore dei casi (che sarebbe quello che più o meno si sta costruendo in questi ultimi anni, con un’imprenditoria nazionale e multinazionale che ha fatto grandi negoziati, con grandi contratti petroliferi per imprese transnazionali, ma con una distribuzione della reddito nazionale più equa). L’altro: andare avanti fino al socialismo, definendo e mettendo in pratica una chiara linea programmatica in merito a questo nuovo socialismo di cui si parla molto ma del quale non si sa ancora la direzione. Allora: ambedue i progetti non possono convivere. O si espropria o si mantiene la proprietà privata. Arriva un momento in cui bisogna definire le cose.

Si potrà dire che la congiuntura internazionale del Venezuela chavista non è la stessa di Cuba nella decade degli anni 60, con un’Unione Sovietica ancora vittoriosa, forte e in crescita. Questo è sicuro, senza dubbi. Ma questo giustifica quello che stiamo vivendo?

La destra politica incistita nell’apparato statale – ma fondamentalmente nella cultura dominante, nell’ideologia dei quadri direttivi – non permette di avanzare con l’approfondimento della rivoluzione. L’idea di “mantenere una buona mano” con il nemico è mediocre. Il nemico è sempre il nemico. Per caso l’odio di classe potrà scomparire con un sorriso di cortesia? La dialettica della società è qualcosa di più complicato di una cintura politica molto buona come quella del conduttore Chavez. Il suo carisma può essere grande, ma anche la lotta di classe lo include, lo frena, lo fagocita. Chissà questo bisognerebbe dirglielo, perchè sembra non averlo capito secondo gli eventi recenti (consegna di militanti rivoluzionari per ingraziarsi l’ultradestra colombiana, e in definitiva, per abbassare il suo profilo “rivoluzionario”, “molesto” con l’impero).

La Rivoluzione Bolivariana che ha cominciato a costruirsi in Venezuela continua ad essere una speranza, una finestra verso qualcosa di nuovo. Come abbiamo detto all’inizio, può essere il passo verso un mondo non retto dall’etica dei “trionfatori”, dei VIP, dei “figli più giovani”. Questo è quello che c’è in gioco, e vale la pena mettersi in gioco. Oggi il Venezuela potrebbe essere un esempio di dignità per tutti i popoli dell’America Latina. Che possiamo fare se non appoggiarlo? Dopo le decadi perdute e la caduta del socialismo reale, è la nostra fonte di speranza. È nostra responsabilità come esseri umani che continuiamo ad avere speranza in un mondo migliore dare il nostro granello di sabbia in questa impresa. Appoggiarla criticamente forse, mostrando le sue debolezze, i suoi limiti, per cercare di andare oltre, e avendo chiaro che tutto questo processo, questi errori politici che ora commette la rivoluzione, non è il nemico. Anche ora, con quello che stiamo vivendo ultimamente, si aprono seri dubbi. Ed è qui che si aprono questi dilemmi: appoggiare un Chavez che desidera ingraziarsi la destra colombiana? Più oltre delle spiegazioni tattiche che si possono argomentare, questo è strategico? Si possono sollevare questi valori? Si accetta una chitarra in regalo da Shakira ma si consegnano militanti rivoluzionari?
Questa condotta irregolare del comandante Chavez, che mostra sotto tutti gli aspetti che maneggia a suo totale piacimento il processo e che si è dimenticato del potere popolare, preoccupa. Si è venduto la rivoluzione? Possono le “ragioni di Stato” essere più importanti dei principi? C’è gente VIP quindi?
Come buon cristiano che dice di essere, non dovrebbe dimenticare il messaggio del Messia quindi (se permettiamo una lettura “socializzante” della figura di Gesù di Nazareth): sta con i potenti o con i bisognosi? Perchè “non si può servire due signori. O servi Dio o il Diavolo”, Luca 16:1-13. Oppure, altrimenti, si potrebbe concludere giustificando  tutto e dire come Barack Obama ricevendo il premio Nobel per la pace: “a volte la guerra è giustificata per raggiungere la pace”.

Siccome non sono un VIP, probabilmente Chavez non leggerà questo articolo. Ma il messaggio rimane in ogni modo: attenzione comandante, anche se non lo vuoi, la lotta di classe è lì, e ingraziarsi il nemico non serve a sconfiggerlo! Anche se non le piace, anche se sembra stonata, il proclama del Maggio francese citato all’inizio contiene grande saggezza.
Traduzione di Anna Camposampiero
Scritto da Marcelo Colussi (speciale per ARGENPRESS.info)   


martes, 12 de julio de 2011

Muore il filosofo Adolfo Sánchez Vázquez, americano di adozione.

Nato in Spagna, esiliato in Messico (1940), lascia importanti contributi all'estetica marxista.

   Per la serena scomparsa – all'età di 95 anni - di Adolfo Sánchez Vázquez, pubblichiamo  l'introduzione a una tesi di laurea sull'estetica del filosofo. L'invito è comunque quello di leggere i suoi scritti, che hanno avuto il gran merito di aiutare il marxismo ad uscire dall'ortodossia stalinista. Da giovane ha partecipato alla Guerra Civile Spagnola (1936-39) resistendo sino all'ultimo giorno dalla parte della Repubblica, ma poi la vittoria dei Franchisti l'ha  obbligato all'esilio. Intellettuale, scrittore e poeta tra i combattenti repubblicani, è dall'America che arrivano i suoi contributi al marxismo.  Segue la traduzione in spagnolo dell'introduzione alla tesi.

Introduzione a “L'estetica di Adolfo Sánchez Vázquez”
    A partire dagli anni ’60, nel corso del processo di “destalinizzazione”, l’estetica marxista ha abbandonato le posizioni meccaniciste –sociologiche ed ideologiche- per ricollegare il marxismo alle sue origini. I nuovi esteti sono partiti dai presupposti di un materialismo dialettico per comprendere la complessità dei fenomeni dell’arte contemporanea, abbandonando quelle posizioni dogmatiche che stendevano un velo sulla comprensione di tali fenomeni.

    La contingenza storica in cui l’estetica marxista visse questa svolta –da un lato, la voglia di riscattare il marxismo dalle deformazioni dello stalinismo; dall’altro, i primi risultati della Rivoluzione Cubana (1959), che esprimevano l’attualità e l’attuabilità dei principi marxisti- diede un forte impulso al suo studio; questo processo portò l’estetica marxista a dare spiegazioni più profonde rispetto alle teorie idealiste ed irrazionaliste circa il significato umano dell’attività artistica in generale.

    Come ha fatto notare José María de Quinto sulla rivista Ínsula (num.258. Madrid, Maggio, 1968),  l’apparizione de Las ideas estéticas de Marx (1965) di Adolfo Sánchez Vázquez non rappresentò solo un contributo alla sistemazione delle idee estetiche marxiste, ma venne a rompere lo storico “tabù” degli intellettuali spagnoli col marxismo. “Casi todos –scrive J.M. de Quinto- han venido hurtando el bulto desde antiguo, ignorando deliberadamente o apenas concidiendo atención a tal pensamiento”. In questo deserto irruppe la figura di Adolfo Sánchez Vázquez, uno dei protagonisti della diaspora che aveva costretto gli intellettuali spagnoli a sparpagliarsi per il mondo. Appartenente alla generazione che visse da giovane le esperienze della guerra civile spagnola (1936-39), il filosofo maturò culturalmente durante l’esilio, soffrendo lo status di esiliato, ma traendo un grosso vantaggio dalla condizione di libertà in cui riuscì a sviluppare i suoi lavori. Questa situazione gli permise di dotare le sue riflessioni di un’invidiabile oggettività e lungimiranza, tanto da suscitare reazioni e dibattiti costruttivi intorno ad una filosofia –il marxismo, appunto- che nel mondo degli intellettuali spagnoli era rimasta al margine dei dibatti filosofici.

    Il presente lavoro si inserisce nel quadro dell’analisi del contributo culturale che gli esiliati spagnoli seppero dare in America Latina, ed in particolare in Messico. La scelta di analizzare le idee estetiche di Sánchez Vázquez è nata dalla curiosità per la sua concezione del rapporto tra arte e lavoro, intese come sfere dell’attività umana che possono condurre tanto all’alienazione quanto allo sviluppo della personalità. Il filosofo rivolse la sua attenzione a quest’argomento dopo aver letto gli scritti del giovane Marx, che lo condussero a guardare il marxismo non più come una teoria capace di dare spiegazioni socio-economiche, bensì come una filosofia con una base ontologica, fondata su una concezione dell’uomo come essere libero e creatore, da opporre alla condizione inumana di sudditanza e di alienazione. L’attenzione dell’elaborato è pertanto rivolta alla sua interpretazione delle idee estetiche di Marx, a cui fanno seguito delle considerazioni sullo sviluppo della produzione e del godimento artistico nella società capitalista.

    [Ciao Adolfo. Sei stato un maestro che non conoscerò, ma ho sempre con me i tuoi scritti a cui fare domande.]
Fabio Avolio
Tesi: “L'estetica di Adolfo Sánchez Vázquez”
Università degli Studi di Napoli “L'Orientale” - 2005
La estética de Adolfo Sánchez Vázquez
Tesis de licenciatura en lengua y literatura española
Universidad “L’Orientale” de Nápoles (2005)

INTRODUCCIÓN

A partir de los aňos '60, en el transcurso del proceso de “destanilizaciòn”, la estética marxista ha abandonado las posiciones mecanicistas – sociològicas e ideològicas – para reconectar el marxismo a sus orìgenes. Los nuevos estetas arrancaron por los presupuestos de un materialismo dialéctico para comprender la complejidad de los fenòmenos del arte contemporanea, abandonando aquellas posiciones dogmàticas que bajaban una cortina sobre la comprensiòn de tales fenòmenos.
    La contingencia històrica en la cual la estética marxista viviò este cambio – por un lado, la voluntad de rescatar el marxismo por las deformaciones del estalinismo; por otro, los primeros resultados de la Revoluciòn Cubana (1959), que expresaban la actualidad y la actuabilidad de los principios marxistas – diò un fuerte impulso a su estudio; este proceso llevò la estética marxista a dar explicaciones màs profundas acerca de las teorias idealistas e irracionalistas sobre el sentido humano de la actividad artìstica en general.
    Asì como lo hace notar José Marìa Quinto, [1] la apariciòn de Las ideas estéticas de Marx (1965) de Adolfo Sànchez Vàzquez no representò solo un aporte a la sistematizaciòn de las ideas estéticas marxistas, sino llegò a romper el històrico “tabù” de los intelectuales espaňoles con el marxismo. “Casi todos - escribe J.M. de Quinto - han venido hurtando el bulto desde antiguo, ignorando deliberadamente o apenas concidiendo atención a tal pensamiento”.[2] En este desierto cabe la figura de Adolfo Sànchez Vàzquez, uno de los protagonistas de la diàspora polìtica que habìa obligado a los intelectuales espaňoles a esparcerse por el mundo. Perteneciente a la generaciòn que viviò de jòven las experiencias de la guerra civil espaňola (1936-39), el filòsofo madurò culturalmente durante el exilio, padeciendo el estatus de exiliado, pero sacando a la vez gran provecho por la condiciòn de libertad en la cual logrò desarrollar sus trabajos. Esta situaciòn le permitiò cargar sus reflecxiones de una invidiable objetividad y alcance, hasta solicitar reacciones y debates constructivos alrededor de una filosofìa – el marxismo – que en el mundo de los intelectuales espaňoles habìa quedado al margen de los debates filosòficos. [3]
    El presente trabajo se enmarca en la anàlisis del aporte cultural que los exiliados espaňoles supieron dar en América Latina, y en particular en México. La elecciòn de analizar las ideas estéticas de Adolfo Sànchez Vàzquez naciò por la curiosidad para su concepciòn de la relaciòn entre arte y trabajo, entendidas como esferas de la actividad humana que pueden llevar tanto a la enajenaciòn cuanto al desarrollo de la personalidad. El filòsofo orientò su atenciòn a este asunto después de haber leido los escritos del joven Marx, que lo llevaron a mirar al marxismo ya no solo como una teorìa capaz de dar explicaciones socio-econòmicas, sino como una filosofìa con una base ontològica, fundada en una concepciòn del hombre y de la mujer como seres libres y creadores, concepciòn opuesta a la condiciòn inhumana sumisa y enajenada. La atenciòn del libro de Sànchez Vàzquez  es orientada a la interpretaciòn de las ideas estéticas de Marx, seguidas por las consideraciones del filòsofo sobre el desarrollo de la producciòn y del goce artìstico en la sociedad capitalista.





[1]          J.María de Quinto, “Las ideas estéticas de Marx”, en Ínsula, num.258. Madrid, Maggio, 1968, pp. 24-30.  
[2]             Ibidem, p.25.  
[3]             Ibidem, p.27.